Si dice spesso nel mondo ormai privo di confini solidi di quello che oggi viene definito yoga, che non c’è distinzione tra il nostro corpo e l’universo, sottolineando spesso che il primo è “cartografia del secondo”, che la pratica stessa è un atto di “cosmicizzazione” che viene in essere proprio attraverso il corpo in quanto mandala sacro. Si afferma che incarnare gli asana ci permette di destrutturare non solo uno schema corporeo incrostato da vecchie abitudini posturali ma anche di decondizionarci da consuetudini mentali tanto rassicuranti quanto invalidanti.
Si riconosce che questi automatismi velano l’esperienza impedendoci di apprezzarne la sfavillante luce e coglierne la costante novità.
E che il nostro compito non è tanto “trovare l’essere” quanto assistere con vigilanza e stupore al suo svelamento mollando la cosiddetta presa sulla realtà; che bisogna imparare a dimorare in nella dimensione relazionale più che primeggiare nello spazio manipolativo del pensiero misurante…bene, ma come?

Sospendendo il giudizio, sacrificando all’interno di questo processo quell’io che analizza e definisce, che accumula e quindi appesantisce la vera natura dell’esperienza, permettiamo al vasto orizzonte del Sé di apparire sullo sfondo.
Ma sospendere il giudizio e sacrificare quell’io che abbiamo costruito con tanto sudore nell’arco di una vita non è cosa per tutti; come non lo è aprirsi all’orizzonte che ci apparirà sapendo di poterlo solo accogliere e non controllarlo.

Uno scoprirsi oltre il cercarsi, un trovarsi nell’ascolto, riconoscere il rigore che ci serve per aprirci la strada e la passione che ci trasforma una volta attraversata la soglia.
Un lavoro duro quello di provare a stare con ciò che c’è, prima del nostro intervento.

Quello di essere tela più che pennello, quello di conservare il candore di questa tela nello stupore, quello di resistere all’abitudine che tutto ingrigisce, quello di restare aperti alla relazione. Il corpo, quel corpo di cui parlavamo nelle prime righe, è quindi il luogo dove avviene questa constante ri-scoperta, definito da alcuni “portatore di dialettica” perché risiede permanentemente nell’ambiguità di essere tanto un frammento di  materia quanto un intermediario dello spirito, questo corpo ci racconta costantemente la continuità con il mondo.

Nella carne, oggi e non domani, qui e non altrove.

Nella pratica impariamo a invertire la rotta invertiamo la rotta, cambiamo strada e abdichiamo alla possibilità di gestire il mondo. Ci concediamo di essere toccati da esso, vulnerabili alla passione, aperti alla sua novità, illuminati dalla sua verità, stupiti dalla sua autenticità.

“Il corpo è viceversa l’unico mezzo che ho di andare al cuore delle cose, facendomi mondo e facendole carne.” M.Merleau-Ponty

– illustrazione di A. Suvorova